Buon pomeriggio. Da oggi ,visto il momento di guerra ,vi propongo :La pelle di Curzio Malaparte

 

Una terribile peste dilaga a Napoli dal giorno in cui,
nell’ottobre del 1943, gli eserciti alleati vi sono entrati come
liberatori: una peste che corrompe non il corpo ma l’anima,
spingendo le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il
rispetto di sé. Trasformata in un inferno di abiezione, la città
offre visioni di un osceno, straziante orrore: la ragazza che in
un tugurio, aprendo «lentamente la rosea e nera tenaglia delle
gambe», lascia che i soldati, per un dollaro, verifichino la sua
verginità; le «parrucche» bionde o ruggine o tizianesche di cui
donne con i capelli ossigenati e la pelle bianca di cipria si
coprono il pube, perché «Negroes like blondes»; i bambini
seminudi e pieni di terrore che megere dal viso incrostato di
belletto vendono ai soldati marocchini, dimentiche del fatto
che a Napoli i bambini sono la sola cosa sacra. La peste – è
questa l’indicibile verità – è nella mano pietosa e fraterna dei
liberatori, nella loro incapacità di scorgere le forze misteriose e
oscure che a Napoli governano gli uomini e i fatti della vita,
nella loro convinzione che un popolo vinto non possa che
essere un popolo di colpevoli. Null’altro rimane allora se non la
lotta per salvare la pelle: non l’anima, come un tempo, o
l’onore, la libertà, la giustizia, ma la «schifosa pelle». E, forse,
la pietà: quella che in uno dei più bei capitoli di questo
insostenibile e splendido romanzo – uno dei pochi che negli
anni successivi alla guerra abbiano lasciato un solco indelebile
nel mondo intero – spinge Consuelo Caracciolo a denudarsi per
rivestire del suo abito di raso, delle calze, degli scarpini di seta
la giovane del Pallonetto morta in un bombardamento,
trasformandola in Principessa delle Fate o in una statua della
Madonna. Come ha scritto Milan Kundera, nella Pelle
Malaparte «con le sue parole fa male a se stesso e agli altri; chi
parla è un uomo che soffre. Non uno scrittore impegnato. Un
poeta».
Curzio Malaparte

All’affettuosa memoria del Colonnello Henry H. Cumming,
dell’Università di Virginia, e di tutti i bravi, i buoni, gli onesti
soldati americani, miei compagni d’arme dal 1943 al 1945,
morti inutilmente per la libertà dell’Europa.
“Se rispettano i templi e gli Dei dei vinti,
i vincitori si salveranno”
Eschilo, Agamennone

LA PESTE
Erano i giorni della ‘peste’ di Napoli. Ogni pomeriggio
alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia
calda nella palestra della P.B.S, Peninsular Base Section, il
Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San
Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che,
dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in
Via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo
alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata,
vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori,
composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano
in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L’onore di
esser liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli
d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così
meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di
fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano
accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e
invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di
cantare, batter le mani, saltare di gioia fra le rovine delle loro
case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi
nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma, non ostante l’universale e sincero entusiasmo, non
v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un
vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse
nato nell’animo del popolo. Era fuori di dubbio che l’Italia, e
perciò anche Napoli, aveva perduto la guerra. E’ certo assai
più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una
guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla. Ma
non basta perdere la guerra per avere il diritto di sentirsi un
popolo vinto. Nella loro antica saggezza, nutrita di una
dolorosa esperienza più volte secolare, e nella loro sincera
modestia, i miei poveri napoletani non si arrogavano il diritto
di sentirsi un popolo vinto. Era questa, senza dubbio, una
grave mancanza di tatto. Mi potevano gli Alleati pretendere
di liberare i popoli e di obbligarli al tempo stesso a sentirsi
vinti? O liberi o vinti. Sarebbe ingiusto far colpa al popolo
napoletano se non si sentiva né libero né vinto.
Mentre camminavo accanto al Colonnello Hamilton, io
mi sentivo meravigliosamente ridicolo nella mia uniforme
inglese. Le uniformi del Corpo Italiano della Liberazione
erano vecchie uniformi inglesi di color kaki, cedute dal
Comando Britannico al Maresciallo Badoglio, e ritinte, forse
per tentar di nascondere le macchie di sangue e i fori dei
proiettili, di un verde denso, color di lucertola. Erano, infatti,
uniformi tolte ai soldati britannici caduti a El Alamein e a
Tobruk. Nella mia giubba erano visibili i fori di tre proiettili
di mitragliatrice. La mia maglia, la mia camicia, le mie
mutande, erano macchiate di sangue. Anche le mie scarpe
erano state tolte al cadavere di un soldato inglese. La prima
volta che me le ero infilate, m’ero sentito pungere sotto la
pianta del piede. Avevo pensato, sulle prime, che nella scarpa
fosse rimasto appiccicato un ossicino del morto. Era un
chiodo. Sarebbe stato meglio, forse, se si fosse trattato
veramente di un ossicino del morto, mi sarebbe stato assai
più facile toglierlo. Mi ci volle mezz’ora per trovare una
tenaglia, e togliere il chiodo. Non c’è che dire: era proprio
finita bene, per noi, quella stupida guerra. Non poteva certo
finir meglio. Il nostro amor proprio di soldati vinti era salvo:
ormai combattevamo al fianco degli Alleati, per vincere
insieme con loro la loro guerra dopo aver perduto la nostra,
ed era perciò naturale che fossimo vestiti con le uniformi dei
soldati alleati ammazzati da noi.
Quando finalmente riuscii a togliere il chiodo, e
infilarmi la scarpa, la Compagnia di cui dovevo assumere il
comando era già riunita da un pezzo nel cortile della
caserma. La caserma era un antico convento nei pressi della
Torretta, dietro a Mergellina, diroccato dai secoli e dai
bombardamenti. Il cortile, in forma di chiostro, era
circondato da tre lati da un portico sorretto da magre
colonne di tufo grigio, e da un lato da un alto muro giallo
sparso di verdi chiazze di muffa e di grandi lapidi di marmo,
nelle quali, sotto grandi croci nere, erano incise lunghe
colonne di nomi. li convento era stato, durante qualche
antica epidemia di colera, un lazzaretto, e quelli erano i nomi
dei colerosi morti. Sul muro era scritto in grandi lettere nere:
“Requiescant in pace”.
Il Colonnello Palese aveva voluto presentarmi egli stesso
ai miei soldati, con una di quelle semplici cerimonie che
stanno tanto a cuore ai vecchi militari. Era un uomo alto,
magro, dai capelli tutti bianchi. Mi strinse la mano in
silenzio, e tristemente sospirando sorrise. I soldati (erano
quasi tutti molto giovani, si erano battuti bene contro gli
Alleati in Africa e in Sicilia, e per questa ragione gli Alleati li
avevano scelti per formare il primo nucleo del Corpo Italiano
della Liberazione) stavano allineati in mezzo al cortile, là
davanti a noi, e mi guardavano fisso. Erano anch’essi vestiti di
uniformi tolte ai soldati inglesi caduti a El Alamein e a
Tobruk, le loro scarpe erano scarpe di morti. Avevano il viso
pallido e smunto, gli occhi bianchi e fermi, fatti di una
materia molle e opaca. Mi fissavano, così mi parve, senza
batter le palpebre.
Il Colonnello Palese fece un segno col capo, il sergente
gridò: “ Compagnia, attenti!”. Lo sguardo dei soldati si
appesantì su me con un’intensità dolorosa, come lo sguardo
di un gatto morto. Le loro membra si irrigidirono, scattarono
sull’attenti. Le mani che stringevano i fucili erano bianche,
esangui: la pelle floscia pendeva dalla punta delle dita come
la pelle di un guanto troppo largo.
Il Colonnello Palese prese a parlare, disse: “ Vi presento
il vostro nuovo capitano…” e mentre parlava io guardavo quei
soldati italiani vestiti di uniformi tolte ai cadaveri inglesi,
quelle mani esangui, quelle labbra pallide, quegli occhi
bianchi. Qua e là, sul petto, sul ventre, sulle gambe, le loro
uniformi erano sparse di nere chiazze di sangue. A un tratto
mi accorsi con orrore che quei soldati erano morti.
Mandavano un pallido odore di stoffa ammuffita, di cuoio
marcio, di carne seccata al sole. Guardai il Colonnello Palese,
anch’egli era morto. La voce che usciva dalle sue labbra era
umida, fredda, viscida, come quegli orribili gorgoglii che
escono dalla bocca di un morto se gli appoggi una mano sullo
stomaco.
“ Ordinate il riposo” disse al sergente il Colonnello
Palese quando ebbe finito il suo breve discorso. “ Compagnia,
riposo!” gridò il sergente. I soldati si abbandonarono sul
piede sinistro in un atteggiamento morbido e stanco, e mi
guardarono fisso, con uno sguardo più dolce, più lontano. “
Ed ora” disse il Colonnello Palese “ il vostro nuovo capitano vi
parlerà brevemente.” Io aprii le labbra, e un gorgoglio orribile
mi usciva di bocca, erano parole sorde, obese, floscie. Dissi: “
Siamo i volontari della Libertà, i soldati della nuova Italia.
Dobbiamo combattere i tedeschi, cacciarli fuori di casa,
ributtarli di là dalle nostre frontiere. Gli occhi di tutti gli
italiani sono fissi su noi: dobbiamo risollevare la bandiera
caduta nel fango, esser d’esempio a tutti in tanta vergogna,
mostrarci degni dell’ora che volge, del compito che la patria
ci affida”. Quando ebbi finito di parlare il Colonnello Palese
disse ai soldati “ Ora uno fra voi ripeterà quello che ha detto
il vostro capitano. Voglio esser sicuro che avete capito. Tu”
disse indicando un soldato “ ripeti quel che ha detto il vostro
capitano”.
Il soldato mi guardò, era pallido, aveva le labbra esangui
e sottili dei morti. Disse lentamente, con un orrendo
gorgoglio nella voce: “ Dobbiamo mostrarci degni delle
vergogne d’Italia”.
Il Colonnello Palese mi si avvicinò, mi disse a voce
bassa: “ Hanno capito” e si allontanò in silenzio. Sotto la sua
ascella sinistra, una nera macchia di sangue si allargava a
poco a poco sul panno dell’uniforme. Io guardavo quella nera
macchia di sangue allargarsi a poco a poco, seguivo con gli
occhi quel vecchio colonnello italiano vestito dell’uniforme di
un inglese morto, lo guardavo allontanarsi lentamente
facendo scricchiolare le scarpe di un soldato inglese morto, e
il nome Italia mi puzzava in bocca come un pezzo di carne
marcia.
“ This bastard people!” diceva fra i denti il Colonnello
Hamilton aprendosi il passo nella folla.
“ Perché dici così, Jack?”
Giunti all’altezza dell’Augusteo, svoltavamo di solito,
ogni giorno, in Via Santa Brigida, dove la folla era più rada, e
ci fermavamo un istante a riprender fiato.
“ This bastard people” diceva Jack rimettendosi in
ordine l’uniforme sgualcita dalla terribile stretta della folla.
“ Don’t say that, non dir così, Jack .”
“ Why not? This bastard, dirty people.”
“ Oh, Jack! anch’io sono un bastardo, anch’io sono uno
sporco italiano. Ma sono orgoglioso di essere uno sporco
italiano. Non è colpa nostra se non siamo nati in America.
Sono sicuro che saremmo un bastard dirty people anche se
fossimo nati in America. Don’t you think so, Jack?”
“ Don’t worry, Malaparte” diceva Jack “ non te ne avere a
male. Life is wonderful.”
“ Si, la vita è una cosa magnifica, Jack , lo so. Ma non dir
così, don’t say that.”
“ Sorry” diceva Jack battendomi la mano sulla spalla “
non volevo offenderti. E’ un modo di dire. I like italian
people. I like this bastard, dirty, wonderful people.”
“ Lo so, Jack , che vuoi bene a questo povero, infelice,
meraviglioso popolo. Nessun popolo sulla terra ha mai tanto
sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la
schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice
nessuno, non odia nessuno: neppure la miseria. Cristo era
napoletano.”
“ Non dir sciocchezze” diceva Jack .
“ Non è una sciocchezza. Cristo era napoletano.”
“ Che cos’hai oggi, Malaparte?” diceva Jack guardandomi
con i suoi occhi buoni.
“ Niente. Che vuoi che abbia?”
“ Sei d’umor nero” diceva Jack.
“ Perché dovrei esser di cattivo umore?”
“ I know you, Malaparte. Sei d’umor nero, oggi.”
“ Sono addolorato per Cassino, Jack .”
“ Al diavolo Cassino, the hell with Cassino.”
“ Sono addolorato, veramente addolorato, di quel che
accade a Cassino.”
“ The hell with you” diceva Jack .
“ E’ proprio un peccato che passiate tanti guai a
Cassino.”
“ Shut up, Malaparte.”
“ Sorry. Non volevo offenderti, Jack . I like Americans. I
like the pure, the clean, the wonderful american people.”
“ Lo so, Malaparte. Lo so che vuoi bene agli Americani.
But, take it easy, Malaparte. Life is wonderful.”
“ Al diavolo Cassino, Jack .”
“ Oh yes. Al diavolo Napoli, Malaparte, the hell with
Naples.”
Uno strano odore era nell’aria. Non era l’odore che
scende, verso il tramonto, dai vicoli di Toledo, da Piazza delle
Carrette, da Santa Teresella degli Spagnoli. Non era l’odore
delle friggitorie, delle osterie, degli orinatoi, annidati nei
fetidi, oscuri vicoli dei Quartieri, che da Via Toledo salgono
verso San Martino. Non era quell’odore giallo, opaco, viscido,
fatto di mille effluvii, di mille torbide esalazioni, de mille
délicates puanteurs, come diceva Jack , che i fiori appassiti,
ammucchiati ai piedi della Vergine nei tabernacoli agli angoli
dei vicoli, spandono in certe ore del giorno per tutta la città.
Non era l’odore dello scirocco, che sa di cacio di pecora e di
pesce guasto. Non era neppure quell’odore di carne cotta che,
verso sera, si diffonde per Napoli dai bordelli, quell’odore nel
quale Jean Paul Sartre, camminando un giorno per Via
Toledo, “sombre comme une aisselle, pleine d’une ombre
chaude vaguement obscène”, fiutava la “parenté immonde de
l’amour et de la nourriture”. No, non era quell’odore di carne
cotta che grava su Napoli verso il tramonto, quando “la chair
des femmes a l’air bouillie sous la crasse”. Era un odore di una
purezza e di una levità straordinarie: magro, leggero,
trasparente, un odore di mare polveroso, di notte salata,
l’odore di un’antica foresta d’alberi di carta.
Torme di donne spettinate e imbellettate, seguite da
turbe di soldati negri dalle mani pallide, scendevano e
salivano per Via Toledo, fendendo la folla con stridi acuti ‘ehi,
Joe! ehi, Joe!’ All’imbocco dei vicoli sostavano in lunghe
schiere, ciascuna in piedi dietro la spalliera di una sedia, le
pettinatrici pubbliche, le ‘capere’. Su quelle sedie, il capo
abbandonato a occhi chiusi sulla spalliera, o reclinato sul
petto, sedevano atletici negri dalla testa piccola e rotonda,
dalle gialle scarpe lucenti come i piedi delle dorate statue
degli Angeli nella chiesa di Santa Chiara. Le ‘capere’, urlando,
chiamandosi fra loro con strani gridi gutturali, o cantando, o
litigando a squarciagola con le comari affacciate alle finestre
e ai balconi come a un palco di teatro, affondavano il pettine
nei ritorti, lanosi capelli dei negri, tiravano a sé il pettine
impugnandolo con ambe le mani, sputavano sui denti del
pettine per renderli più scorrevoli, si versavano fiumi di
brillantina nel palmo della mano, strofinavano e lisciavano le
selvatiche chiome dei pazienti come massaggiatrici.
Bande di ragazzi cenciosi, inginocchiati davanti alle loro
cassette di legno, incrostate di scaglie di madreperla, di
conchiglie marine, di frammenti di specchio, battevano la
costola delle loro spazzole sul coperchio delle cassette,
gridando: sciuscià! sciuscià! shoe-shine! shoe-shine! e intanto
con la scarna, avida mano ghermivano a volo per un lembo
dei calzoni i soldati negri che passavano dondolandosi sui
fianchi. Gruppi di soldati marocchini stavano accovacciati
lungo i muri, avvolti nei loro scuri mantelli, il viso butterato
dal vaiolo, i gialli occhi lucenti in fondo alle cupe orbite e
grinzose, aspirando con le narici accese l’odore magro errante
nell’aria polverosa.
Donne livide, sfatte, dalle labbra dipinte, dalle smunte
gote incrostate di belletto, orribili e pietose, sostavano
all’angolo dei vicoli offrendo ai passanti la loro miserabile
mercanzia: ragazzi e bambine di otto, di dieci anni, che i
soldati marocchini, indiani, algerini, malgasci, palpavano
sollevando loro la veste o infilando la mano fra i bottoni dei
calzoncini. Le donne gridavano, “ Two dollars the boys, three
dollars the girls!”.
“ Ti piacerebbe, di’ la verità, una bambina da tre dollari”
dicevo a Jack .
“ Shut up, Malaparte.”
“ Non è poi cara, una bambina per tre dollari. Costa
molto di più un chilo di carne d’agnello. Sono sicuro che a
Londra o a New York una bambina costa più di qui, non è
vero, Jack?”
“ Tu me dégoùtes” diceva Jack .
“ Tre dollari fanno appena trecento lire. Quanto può
pesare una bambina di otto o dieci anni? Venticinque chili?
Pensa che un chilo d’agnello, sul mercato nero, costa
cinquecento e cinquanta lire, cioè cinque dollari e cinquanta
cents.”
“ Shut up!” gridava Jack .
I prezzi delle bambine e dei ragazzi, da qualche giorno,
erano caduti, e continuavano a ribassare. Mentre i prezzi
dello zucchero, dell’olio, della farina, della carne, del pane,
erano saliti, e continuavano ad aumentare, il prezzo della
carne umana calava di giorno in giorno. Una ragazza fra i
venti e i venticinque anni, che una settimana prima valeva
fino a dieci dollari, ormai valeva appena quattro dollari, ossa
comprese. La ragione di una tal caduta di prezzo della carne
umana sul mercato napoletano dipendeva forse dal fatto che
a Napoli accorrevano donne da tutte le parti dell’Italia
meridionale. Durante le ultime settimane, i grossisti avevano
buttato sul mercato una forte partita di donne siciliane. Non
era tutta carne fresca, ma gli speculatori sapevano che i
soldati negri sono di gusti raffinati, e preferiscono la carne
non troppo fresca. Tuttavia, la carne siciliana non era molto
richiesta, e perfino i negri finirono per rifiutarla: ai negri non
piacciono le donne bianche troppo nere. Dalle Calabrie, dalle
Puglie, dalla Basilicata, dal Molise, giungevano ogni giorno a
Napoli, su carretti trainati da poveri asinelli, su autocarri
alleati, e la maggior parte a piedi, schiere di ragazze sode e
robuste quasi tutte contadine, attirate dal miraggio dell’oro. E
così i prezzi della carne umana sul mercato napoletano erano
venuti precipitando, e si temeva che ciò potesse aver
conseguenze gravi per tutta l’economia della città. (Non si
erano mai viste simili cose, a Napoli. Era una vergogna, certo,
una vergogna di cui la grandissima parte del buon popolo
napoletano arrossiva. Ma perché le autorità alleate, che erano
le padrone di Napoli, non arrossivano?) In compenso, la
carne di negro era salita di prezzo, e questo fatto contribuiva,
per fortuna, a ristabilire un certo equilibrio sul mercato.
“ Quanto costa, oggi, la carne di negro?” domandavo a
Jack .
“ Shut up” rispondeva Jack .
“ E’ vero che la carne di un americano nero costa più di
quella di un americano bianco?”
“ Tu m’agaces” rispondeva Jack .
Non avevo certo l’intenzione di offenderlo, né di
prenderlo in giro, e nemmeno di mancar di rispetto
all’esercito americano, “the most lovely, the most kind, the
most respectable Army of the world”. Che cosa importava a
me se la carne di un americano nero costava più di quella di
un americano bianco? Io voglio bene agli Americani,
qualunque sia il colore della loro pelle, e l’ho provato cento
volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l’anima chiara,
molto più chiara della nostra. Voglio bene agli Americani
perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché
credono che Cristo stia sempre dalla parte di coloro che
hanno ragione. Perché credono che è una colpa aver torto,
che è cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli
son galantuomini, e che tutti i popoli d’Europa sono, più o
meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un
popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è
un atto di giustizia divina.
Voglio bene agli Americani per queste, e per molte altre
ragioni che non dico. Il loro senso di umanità, la loro
generosità, l’onesta e pura semplicità delle loro idee, dei loro
sentimenti, la schiettezza dei loro modi, mi davano, in quel
terribile autunno del 1943, così pieno di umiliazioni e di lutti
per il mio popolo, l’illusione che gli uomini odiano il male, la
speranza in una umanità migliore, la certezza che soltanto la
bontà (la bontà e l’innocenza di quei magnifici ragazzi d’oltre
Atlantico, sbarcati in Europa per punire i malvagi e premiare
i buoni) avrebbe potuto riscattare dai loro peccati i popoli e
gli individui.
Ma, fra tutti i miei amici americani, il colonnello di
Stato Maggiore Jack Hamilton m’era il più caro. Jack era un
uomo di trentotto anni, alto, magro, pallido, elegante, di
modi signorili, quasi europei. Sulle prime, forse, appariva più
europeo che americano, ma non per questa ragione io gli
volevo bene: e gli volevo bene come a un fratello. Poiché a
poco a poco, conoscendolo, intimamente, la sua natura
americana si rivelava profonda e decisiva. Era nato nella
Carolina del Sud (“ ho avuto per balia” diceva Jack “ une
négresse par un démon secouée”), ma non era soltanto quel
che in America s’intende per uomo del Sud. Era uno spirito
colto, raffinato, e al tempo stesso di una semplicità e di
un’innocenza quasi puerili. Era, voglio dire, un americano nel
senso più nobile della parola: uno tra gli uomini più degni di
rispetto che io abbia mai incontrato nella vita. Era un
christian gentleman. Ah, quanto è difficile esprimere ciò che
io voglio intendere per christian gentleman. Tutti coloro che
conoscono e amano gli americani, capiscono che cosa io
voglia intendere quando dico che il popolo americano è un
popolo cristiano, e che Jack era un christian gentleman.
Educato nella Woodberry Forest School e nell’Università
di Virginia, Jack si era dedicato con eguale amore al latino, al
greco, e allo sport, ponendosi con egual fiducia nelle mani di
Orazio, di Virgilio, di Simonide e di Senofonte, e in quelle dei
masseurs delle palestre universitarie. Era stato, nel 1928,
sprinter dell’American Olympic Track Team ad Amsterdam,
ed era più fiero delle sue vittorie olimpiche che dei suoi titoli
accademici. Dopo il 1929 aveva trascorso alcuni anni a Parigi
per conto dell’United Press, ed era orgoglioso del suo francese
quasi perfetto.
“ Ho imparato il francese dai classici” diceva Jack “ i miei
maestri di francese sono stati La Fontaine e Madame Bonnet,
la portinaia della casa dove abitavo in Rue Vaugirard. Tu ne
trouves pas que je parle comme les animaux de La Fontaine?
Ho imparato da lui “qu’un chien peut bien regarder un
Evoque”.”
“ E sei venuto in Europa” gli dicevo “ per imparar queste
cose? Anche in America “un chien peut bien regarder un
Evoque”.”
“ Oh non” rispondeva Jack “ en Amérique ce sont les
Evoques qui peuvent regarder les chiens.”
Jack conosceva bene anche ciò ch’egli chiamava la
banlieue de Paris, vale a dire l’Europa. Aveva percorso la
Svizzera, il Belgio, la Germania, la Svezia, con quello spirito
umanistico, con quell’avidità di conoscenza, con cui gli
undergraduates inglesi, prima della riforma del Dottor
Arnold, percorrevano l’Europa durante il loro ‘grand tour’
estivo. Da quei suoi viaggi, Jack era tornato in America con i
manoscritti di un saggio sullo spirito della civiltà europea, e
di uno studio su Descartes, che gli avevano valso la nomina a
Professore di Letteratura in una grande Università americana.
Ma gli allori accademici non sono così verdi, intorno alla
fronte di un atleta, come gli allori olimpici: e Jack non sapeva
darsi pace che uno strappo muscolare al ginocchio non gli
consentisse più di correre, nelle gare internazionali, per la
bandiera stellata. Per tentar di dimenticare quella sua
sventura, Jack si recava a leggere il suo diletto Virgilio o il suo
caro Senofonte nello spogliatoio della palestra della sua
Università, in quell’odore di gomma, di asciugamano
bagnato, di sapone, e di linoleum, che è l’odore caratteristico
della cultura classica universitaria nei paesi anglosassoni.
Una mattina, a Napoli, lo sorpresi nello spogliatoio, a
quell’ora deserto, della palestra della Peninsular Base Section,
intento a leggere Pindaro. Mi guardò e sorrise, arrossendo
leggermente. Mi domandò se amavo la poesia di Pindaro. E
aggiunse che nelle odi pindariche in onore degli atleti
vincitori ad Olimpia non si sente la dura, la lunga fatica
dell’allenamento, che in quei versi divini risuonano gli urli
della folla e gli applausi trionfali, non il rauco sibilo, non il
rantolo che esce dalle labbra degli atleti nel terribile sforzo
supremo. “ Io me ne intendo” disse “ so che cosa sono gli
ultimi venti metri. Pindaro non è un poeta moderno, è un
poeta inglese dell’età vittoriana.”…..