LEGGENDA DI CAPODIMONTE


Lassù, sul colle, vive il bosco verdeggiante dalle fresche ombrie. I sentieri si allungano a
perdita d’occhio sotto i grandi alberi; sulla terra scricchiolano lievemente le foglie morte. La
vegetazione sbuca possente dal suolo, s’ingrossa nei tronchi nodosi, si espande nei rami che si
intrecciano, nelle innumerevoli foglie lucide e brune; ai piedi degli alberi cresce l’erba morbida e
minuta, dalle foglioline piccine. Nelle siepi fiorisce l’anemone, e sfoglia al suolo i suoi petali la rosa
selvaggia. Schizzano, sfilano le lucertoline grigio-verde, dalla testolina mobile ed intelligente, dalla
coda nervosa. Sotto gli archi dei grandi. alberi: penetra temperata la luce; tra foglia e foglia il sole
getta, sulla terra dei cerchielli ridenti e luminosi; raggi sottili e biondi passano tra i rami. Il silenzio
è profondo; è lontana, lontana la rumorosa città. Un profumo vivificante si espande; ogni tanto il
garrito allegro di un uccello fa ondeggiare le conche rosee dell’aria. Non è, non è la piccioletta e
magra natura dei giardini tagliati ad angoli retti, squadrati, polverosi e malinconici; non sono le
aiuole di fiorellini variopinti che non dànno freschezza, non dànno ombra, tirati su con cure infinite;
non è la natura corretta e riveduta, sfacciata e pomposa che si stende al sole senza vergogna, riarsa,
secca. È la forte e possente natura che irrompe dalla terra vera, e allaga, e inonda la campagna come
oceano di verdura; è la natura pudica e grande del bosco, che si ammanta di foglie, che vela il volto
divino, che molce la passione delle sue nozze nell’ombre discrete nei placidi silenzi, nei recessi
ignoti. È nell’immenso bosco che si sogna; nei quadrivi lontani trapassa rapidissimo un lieve
fantasma; nei bruni tronchi apparisce qualche leggiadro volto di donna; la foglia che cade sembra il
rumore di un bacio scoccato. È nel discreto e amabile bosco che s’ama…
Egli errava nei viali, solo, pallido e triste. La città lo stancava; era incurabile la malattia che
gli corrompeva l’anima. L’occhio vitreo s’affisava sopra ogni cosa bella senza piacere, senza dolore;
né festa di colori, né capolavoro d’arte, né donna bellissima valevano a trargli un sorriso sulle
labbra. Nella città una fanciulla sottile e pensosa si struggeva lentamente per lui d’amore: egli non
l’amava. Altrove, altrove era il suo amore. Lassù, forse nelle incomparabili e lucide stelle, gioielli
glaciali del cielo; laggiù, forse nelle bianche e verdi onde, il cui fragore rassomiglia al metro di una
poesia monotona ed uniforme; al polo, forse, negli albori nevosi, nelle atmosfere frigide, dove il
sole non riscalda e non illumina; nella nera ed orrenda Africa, forse, fra le liane rosse e gigantesche
e fra i serpenti azzurri dagli occhi ammaliatori.
Egli amava lontano in un punto indefinito, in un paese sconosciuto, con un amore sconfinato
ed ignoto, una creatura misteriosa che egli aveva creata. Non la chiamava, non la voleva, non la
desiderava: l’anima sua nulla sapeva di volontà e di desideri. Amava. Il suo palazzo rimaneva vuoto,
la madre si desolava nella solitudine, i servi dormivano nelle anticamere, i nobili cavalli
scalpitavano invano nelle vaste scuderie. Egli non si ricordava più di tutto questo. Trascinava la sua
vita vagando nelle viottole di campagna, vagando nei viali del bosco, dove ritrovava la pace;
trascinava la lenta vita consumandosi nell’amore. Il corpo s’illanguidiva, le gote scarne avevano il
colore della morte, non mandavano più lampi di vitalità le pupille. È questa la funesta malattia che
uccide gli umani; è il fatale ed insanabile amore dell’ideale.
Nella nebulosità di un viale, dove si elevava un velo opalino ed iridescente, in un mattino
d’inverno, egli la vide. Era una forma snella, senza contorni, fatta d’aria, ondeggiante; fu un balenìo
lieve, un luccicare, un istante solo di luce. Egli corse, ansioso, rinvigorito; nulla ritrovò, la forma
gentile era scomparsa. Ma come il suo cuore si pose a desiderare ardentemente di rivedere il
fuggevole fantasma, con la possanza della volontà lo evocò di nuovo. Sempre lontano, sempre
un’ombra vana. Qualche cosa di bianco e di lucido che tremolava, che non toccava il suolo, che si
dileguava nelle linee indefinite dell’aria. Quello, quello era il suo amore: giunto sul punto dove gli
era apparso, egli s’inginocchiava e baciava la terra, adorando così la immagine fuggitiva. Ogni
giorno la divina creatura si concedeva sempre più: gli appariva meno lontana, distinta, più chiara.
Era una creatura celestiale, una fanciulla bianca bianca, le cui forme quasi infantili si velavano in un
abito candido. Ella compariva e nel volto circonfuso di luce, gli sorrideva; agitando il capo, lo
salutava. Poi cominciava a camminare, e lui la seguiva con gli occhi intenti, movendo i passi
macchinalmente, concentrato tutto nell’attenzione; ella radeva appena la terra, abbandonava i
sentieri noti, penetrava tra gli alberi, appariva e scompariva, voltandosi a sorridere, lasciando che il
lembo bianco del suo abito radesse l’erba, con un piccolo e lusinghiero mormorìo. Egli non osava
parlarle, tremava, la voce gli moriva nella gola; bastava alla sua felicità contemplare ardentemente,
con la fissità della follia, con gli occhi aridi che gli bruciavano, il suo amore che fuggiva dinanzi a
lui. Ella girava, girava pel bosco, arrestandosi soltanto un minuto, chinandosi a carezzare i fiori, ma
non cogliendoli, non lasciando traccia sull’erbetta calpestata; appena egli la raggiungeva, ella
riprendeva la sua corsa. Lui dietro, senza sentire la stanchezza delle sue gambe che diventavano
pesanti come il piombo; lui dietro, sostenuto dall’indomita volontà, eccitato, esaltato, sospinto
all’ultima e più acuta vibrazione dei nervi. Fino a che, approssimandosi al castello, il celeste
fantasma cessava di sorridere, ed una malinconia si effondeva dal volto gentile; poi, entrato nel
cupo androne, volgevasi per l’ultima volta, salutava, agitando la mano, e scompariva. Lui non osava
gridarle: rimani, rimani! e s’abbandonava sopra un banco, spossato, abbattuto, morto.
– Perché non siedi a me daccanto, o dolce amor mio? Perché non mi ti accosti? Non temere,
non mi appresserò troppo. Sai che t’amo, so che m’ami; so che dobbiamo troppo avvicinarci. E
neppure puoi parlarmi: così vuole il destino. Ma io t’amo; tu sei il mio cuore. L’anima mia è fatta di
te; non sono io, sono te; se io muoio, tu morrai; se tu muori, io muoio. Come sei bianca, o divina
fanciulla! I tuoi occhi sono trasparenti e chiari, non mi guardano; le tue guance hanno appena una
trasparenza rosea, le tue labbra sono pallide pallide, le tue mani sono candide come la neve, ed un
fiocco di neve è il tuo manto. Hai tu freddo, cuor mio? Non sai che io ho la febbre, che il, sangue
schiuma e bolle nelle mie vene, come un’onda impetuosa? Sorridi? Puoi calmarmi così. Quest’ardor
che m’infiamma, questo incendio che divampa in me, solo la carezza della tua gelida mano potrebbe
domarlo, solo il tocco delle tue gelide labbra potrebbe assopirlo. No! Non allontanarti, resta, resta
per pietà di chi t’ama. Non ti chiederò più nulla, creatura bianca ed innocente. Tu leggi in me, vedi
che sono puro, che il mio cuore è candido come la tua veste, che non lo macchia desiderio di fango.
Non fuggirmi, non rivolgere il, volto celestiale; quando tu m’abbandoni, ecco, la vita declina, in me:
tutto diventa buio, tutto diventa muto, ed io piango sul mio sogno distrutto, sul mio cuore desolato.
Donde vieni tu? Dove vai, quando mi lasci? E perché mi lasci? T’amo, non lasciarmi.
Non parlava la fanciulla nei colloqui i d’amore. Ella ascoltava immobile, bianca, pronta
sempre a partire; ogni tanto un sorriso indefinito le sfiorava le labbra, una mestizia le compariva in
volto; ma sorriso e mestizia erano spostamento di linee, non corrugamento di fronte o espansione di
labbra; era espressione, luce interna, quasi una lampada soave s’accendesse dietro un velo.
Non parlava la fanciulla, ma ogni giorno ella restava più a lungo con colui che l’amava. Egli
le parlava lungamente, poi stanco, la voce gli si abbassava a poco a poco, poi taceva. La
contemplava, estatico. Ella si muoveva per andarsene.
– Non partire, non partire! – supplicava lui.
Ella restava ferma innanzi a lui, i piedini bianchi come ale di colombo, appena posati a terra,
coi capelli vagamente adorni di rose bianche, con un lembo di abito sostenuto da rose bianche.
– Siedi, siedi accanto a me!
Ella non sedeva, immota, guardando dinanzi a sé coi grandi occhi senza pupilla.
– Parlami, parlami – mormorava lui.
Ella non aveva voce, non si muovevano le labbra. Invano egli la pregava, la scongiurava,
s’inginocchiava, ella non gli rispondeva. Era inflessibile e serena.
Ma in un crepuscolo d’autunno, egli trovò le frasi più eloquenti per esprimere la propria
disperazione: batté la fronte a terra, sparse le lagrime più cocenti, adorò la fanciulla. Ella parea si
trasformasse; dietro il candore della pelle pareva che cominciasse a correre il sangue. Egli, folle,
morente di amore, le offerse la sua vita per una parola.
– M’ami?
– Sì – parve un sussurrìo.
Allora, in un impeto di passione, egli l’abbracciò. Un orribile scricchiolìo s’intese e la divina
fanciulla cadde al suolo, frantumata in tanti cocci di porcellana candida.
Nella notte profonda, quando i custodi dormivano, nella deserta sala delle porcellane
cominciò un mormorìo, un bisbiglio, un’agitazione. Correvano fremiti da una scansia all’altra,
attraverso i cristalli; voci irose e sommesse si urtavano, fieri propositi, progetti di vendetta cozzavan
l’un contro l’altro. Poco a poco la calma si ristabilì: tutto era deciso. La sfilata cominciò. Prima fu
l’Aurora bianca sul suo carro tirato da quattro cavalli candidi; e discesa nel giardino dove lui
giaceva svenuto accanto al suo idolo infranto, maledisse per sempre le sue albe; la seguirono le
ventiquattro fanciulle che sono le Ore, e sfogliarono rose avvelenate sullo svenuto; dopo vennero gli
Amorini, e gli conficcarono nel cuore i dardi acuti e dolorosi. Il gruppo passò. Secondi vennero i
sette re di Francia, bianchi, sui cavalli bianchi, Carlomagno, S. Luigi, Francesco I, Enrico II, Enrico
IV, Luigi XIII, Luigi XIV; galoppando pei viali, toccarono con lo scettro, con la spada l’infelice, ed
ogni colpo gli rintronò nel cervello. Poi ogni statuina s’avviò, gli sputò in viso, lo insultò, lo
calpestò; ogni tazza fu piena per lui di cicuta, ogni vassoio di cenere, ogni coppa da fiori contenne
per lui fiori malefici e crudeli. Ed infine si mosse il grande gruppo dei Titani che vogliono scalare
l’Olimpo: Giove, seduto sull’aquila, fulminò il moribondo, ed i Titani lo seppellirono sotto enorme
sepolcro di massi. Poi ognuno riprese la sua via, i gruppi rientrarono nelle scansie e vi rimasero
immobili. Fu questa la vendetta della fredda e candida porcellana su colui che aveva frantumata la
fanciulla immortale.
È questa la storia eterna e fatale. L’ideale raggiunto, toccato, va in pezzi –– l’arte si vendica
sulla vita – e l’anima muore sotto un immane sepolcro

Da: leggende napoletane-Matilde Serao