Factotum-da cap 6 al cap 10

6.
Il lunedì mattina stavo da cani. La
sbronza della sera prima. Mi feci la
barba e mi presentai all’indirizzo di
un annuncio che avevo trovato sul
giornale. Mi sedetti di fronte al
redattore, un uomo in maniche di
camicia con due borse profonde
sotto gli occhi. Sembrava che non
dormisse da una settimana. Era
fresco e scuro là dentro. Era la sala
composizione di uno dei due
quotidiani della città, il più piccolo.
Alle scrivanie, sotto lampade forti,
c’erano gli uomini che preparavano i
testi.
«Dodici dollari alla settimana»,
disse.<br />«Va bene», dissi io. «Ci sto».
Lavoravo con un piccoletto grasso
con una pancetta malaticcia. Aveva
un antiquato orologio da taschino e
portava il panciotto e la visiera
verde.
Aveva le labbra grosse e
un’espressione stupida e ombrosa.
Le rughe del viso non erano né
interessanti né personali, sembrava
che gli avessero piegato e poi
disteso la faccia, come un pezzo di
cartone, parecchie volte. Portava
scarpe con la punta quadrata e
masticava tabacco, schizzando il
succo in una sputacchiera ai suoi
piedi.
«Mr. Belger», disse dell’uomo che
aveva bisogno di una bella dormita,
«ha lavorato sodo per rimettere in
piedi questo giornale. È un
brav’uomo.
Quando è arrivato lui stavamo
fallendo».
Mi guardò. «Di solito questo lavoro
lo danno a uno studente».
È una rana, pensai, ecco cos’è.
«Voglio dire», disse, «di solito
questo lavoro va a uno studente.
Così può studiarsi i suoi libri tra una
commissione e l’altra. Tu sei uno
studente?».
«No».
«Questo lavoro di solito va a uno
studente».
Tornai nel mio ufficio e mi sedetti.
La stanza era piena di file e file di
cassetti di metallo e nei cassetti
c’erano i cliché di zinco che erano
stati usati per gli annunci. Molti di
questi cliché venivano usati in
continuazione. C’erano anche molti
caratteri… nomi di clienti e logotipi.
L’ometto grasso strillava
«Chinaski!» e io andavo a vedere
quale dei caratteri voleva. Spesso mi
mandavano all’altro giornale, dalla
concorrenza, a chiedere qualche
carattere in prestito. Noi gli
prestavamo i nostri. Era una bella
passeggiata e avevo trovato un posto
in una stradina dove davano un
bicchiere di birra per cinque cents. Il
piccoletto grasso non mi chiamava
spesso e così passavo parecchio
tempo a bere birra. Il piccoletto
cominciò a sentire la mia mancanza.
Per un po’
si limitò a guardarmi male. Poi un
giorno mi chiese:
«Dove sei stato?».
«A bere una birra».
«Questo è un lavoro per uno
studente».
«Io non sono uno studente».
«Allora te ne vai. Ho bisogno di
qualcuno che stia sempre qui a mia
disposizione».
Il piccoletto mi portò da Belger che
sembrava stanco come sempre.
«Questo è un lavoro per uno
studente, Mr. Belger. Temo che non
vada bene per quest’uomo. Abbiamo
bisogno di uno studente».
«Va bene», disse Belger. Il
piccoletto se ne andò.
«Quanto le dobbiamo?» chiese
Belger.
«Cinque giorni».
«O.K., porti questo giù in
contabilità».
«Senta, Belger, quel vecchio stronzo
fa cacare».
Belger sospirò. «Cristo Iddio, vuoi
che non lo sappia?».
Andai giù in contabilità.
7.
Eravamo ancora in Louisiana. Ci
aspettava la grande traversata del
Texas.
Ci diedero cibo in scatola senza
apriscatole. Ammucchiai le mie
scatolette sul pavimento e mi sdraiai
sul sedile di legno. Gli altri si erano
messi in fondo al vagone, seduti tutti
insieme, chiacchieravano e ridevano.
Chiusi gli occhi.
Dopo una decina di minuti sentii la
polvere salire tra le crepe dell’asse
che faceva da sedile. Era polvere
molto vecchia, polvere di cimitero,
puzzava di morte, di roba morta da
molto tempo. Mi filtrava nelle
narici, mi si ammucchiava sulle
sopracciglia, cercava di entrarmi in
bocca. Poi sentii un respiro pesante.
Tra le crepe vidi un uomo
accovacciato dietro il sedile che mi
soffiava la polvere in faccia. Mi tirai
su. L’uomo sgusciò fuori da dietro il
sedile e corse in fondo al vagone. Mi
pulii la faccia e lo guardai fisso. Era
difficile crederci.
«Se viene qui voglio che mi diate
una mano, amici», sentii che diceva.
«Dovete promettermi che mi darete
una mano…».
Tutta la banda si voltò a guardarmi.
Mi stesi di nuovo sul sedile. Li
sentivo parlare:
«Che cos’ha quel tipo?». «Chi crede
di essere?». «Non parla con
nessuno».
«Se ne sta là in fondo tutto solo».
«Ci occuperemo di lui quando sarà
là fuori, sulle rotaie. Quel bastardo».
«Credi che ce la farai a dargli il fatto
suo, Paul? Mi sembra pazzo».
«Se non ce la farò io ce la farà
qualcun altro. Gli faremo sputare
sangue, prima di lasciarlo andare».
Un po’ più tardi andai in fondo al
vagone a prendere un sorso d’acqua.
Quando passai davanti a loro
smisero di parlare. Mi guardarono in
silenzio bere l’acqua dal bicchiere.
Poi quando mi voltai e tornai al mio
posto ricominciarono a parlare.
Il treno faceva molte fermate, di
giorno e di notte. A ogni fermata
dove c’era un po’ di verde e una
piccola città, un paio di uomini
saltavano giù dal treno.
«Ehi, che cosa cazzo è successo a
Collins e Martinez?».
Il caposquadra prese l’elenco e li
cancellò. Tornò verso di me. «E tu
chi sei?».
«Chinaski».
«Resti con noi?».
«Ho bisogno di lavorare».
«O.K.». Se ne andò.
A El Paso arrivò il caposquadra e
disse che dovevamo cambiare treno.
Ci diede un buono per una notte in
un albergo vicino e uno per un pasto
in una tavola calda locale; ci diede
anche istruzioni su come, quando e
dove salire sul prossimo treno che
sarebbe passato nelle prime ore del
mattino.
Aspettai fuori dalla tavola calda
mentre gli altri mangiavano, e
quando uscirono stuzzicandosi i
denti e parlando fra loro, entrai.
«Gli faremo il culo, a quel figlio di
puttana!».
«Cazzo, come lo odio quello sporco
bastardo».
Entrai e ordinai un hamburger con
cipolle e fagioli. Non c’era nemmeno
il burro da spalmare sul pane ma il
caffè era buono. Quando uscii se
n’erano andati. Un barbone mi
veniva incontro lungo il
marciapiede. Gli diedi il buono per
l’albergo.
Quella notte dormii al parco. Mi
sembrava più sicuro. Ero stanco, e
non sentii nemmeno la durezza della
panchina. Dormii.
Dopo un po’ fui svegliato da quello
che sembrava un ruggito. Non
sapevo che gli alligatori ruggissero.
Non era solo un ruggito, per la
precisione: anche un respiro
ansimante e un sibilo. Sentii un
rumore secco di mascelle che si
chiudevano. In mezzo allo stagno
c’era un marinaio ubriaco e teneva
uno degli alligatori per la coda.
L’animale cercava di voltarsi e
addentare il marinaio ma aveva
qualche difficoltà.
Le mascelle erano spaventose, ma
lente e sconclusionate. Un altro
marinaio e una ragazza stavano a
guardare e ridevano. Poi il marinaio
baciò la ragazza e se ne andarono
insieme lasciando l’altro a lottare
con l’alligatore…
La seconda volta fu il sole a
svegliarmi. La camicia scottava.
Bruciava, quasi. Il marinaio se n’era
andato.
E anche l’alligatore. Sulla panchina a
est sedevano una ragazza e due
uomini. Evidentemente anche loro
avevano dormito nel parco, quella
notte.
Uno dei due uomini si alzò.
«Mickey», disse la ragazza, «ce l’hai
duro!».
Risero.
«Quanti soldi abbiamo?».
Si frugarono nelle tasche. Avevano
cinque cents.
«Be’
, che cosa facciamo?».
«Non so. Andiamocene di qui».
Li guardai allontanarsi, uscire dal
parco, nella città.
8.
Quando il treno arrivò a Los
Angeles ci fu un’altra fermata di due
o tre giorni. Distribuirono di nuovo i
buoni per l’albergo e i pasti. Diedi
quelli per l’albergo al primo barbone
che incontrai. Mentre camminavo in
cerca della tavola calda dove
mangiare con i miei buoni arrivai
alle spalle di due degli uomini che
avevano fatto il viaggio con me da
New Orleans. Affrettai il passo e mi
misi al loro fianco.
«Come va, ragazzi?» chiesi.
«Oh, va bene, va bene».
«Sicuri? Niente che vi rode?».
«No, tutto bene».
Li lasciai indietro e trovai la tavola
calda. Servivano anche birra, in quel
posto, così scambiai i buoni con un
po’ di birra. C’era tutta la banda del
treno. Finiti i buoni, mi restò appena
qualche spicciolo per il tram fino a
casa dei miei.
9.
Mia madre lanciò un urlo quando
aprì la porta. «Figlio mio! Sei
proprio tu, figlio mio?».
«Ho bisogno di dormire».
«La tua stanza è sempre lì, che ti
aspetta».
Andai nella mia stanza, mi spogliai e
mi ficcai a letto.
Fui svegliato verso le sei di sera, da
mia madre. «È tornato tuo padre».
Mi alzai e cominciai a vestirmi. La
cena era pronta in tavola quando
entrai nella stanza.
Mio padre era un uomo grande e
grosso, più alto di me, con gli occhi
scuri; i miei erano verdi. Aveva il
naso troppo grosso e non si poteva
fare a meno di notare le orecchie.
Era come se volessero staccarsi dalla
testa.
«Senti», disse, «se ti fermi ti metterò
fuori il conto, vitto e alloggio e
anche la lavanderia. Quando avrai
un lavoro, detrarremo dallo
stipendio quello che ci devi finché
avrai saldato il debito».
Mangiammo in silenzio.
10.
Mia madre aveva trovato un lavoro.
Doveva cominciare la mattina dopo.
Così avevo la casa tutta per me.
Dopo colazione e dopo che i miei
genitori furono usciti per andare al
lavoro mi svestii e tornai a letto.
Mi masturbai, poi presi un vecchio
quaderno di scuola e feci una tabella
oraria degli aerei che mi passavano
sulla testa. Decorai la tabella con
qualche disegno piacevolmente
osceno. Sapevo che mio padre mi
avrebbe messo fuori un conto
spaventoso per vitto, alloggio e
lavanderia, e che non avrebbe perso
l’occasione di elencarmi come
persona a carico nella denuncia al
fisco, ma non avevo nessuna voglia
di trovarmi un lavoro, sembrava.
Mentre io riposavo a letto avevo una
strana sensazione nella testa. Era
come se avessi il cranio pieno di
cotone, o di aria, come un
palloncino.
Sentivo il vuoto nella testa. Non
riuscivo a capire. Dopo un po’ smisi
di pensarci. Stavo bene, non era una
sensazione tormentosa. Ascoltai un
po’
di musica sinfonica, fumando le
sigarette di mio padre.
Mi alzai e andai in soggiorno. Nella
casa di fronte c’era una giovane
moglie. Indossava un vestito
marrone corto e stretto. Era seduta
sui gradini della sua casa, proprio di
fronte. Le vedevo un bel po’ di roba,
sotto la gonna. Restai a guardarla
dietro le tende della finestra,
sbirciando su per il vestito. Mi
eccitai. Alla fine mi masturbai
ancora.
Feci un bagno, mi vestii e gironzolai
fumando altre sigarette. Verso le
cinque uscii di casa e andai a fare
una lunga passeggiata. Camminai
per quasi un’ora.
Quando tornai entrambi i miei
genitori erano in casa. La cena era
quasi pronta. Andai nella mia stanza
e aspettai che mi chiamassero. Mi
chiamarono. Andai a tavola.
«Bene», disse mio padre, «hai
trovato un lavoro?».
«No».
«Senti, chiunque voglia un lavoro
trova un lavoro».
«Può darsi».
«Non riesco a credere che tu sia mio
figlio. Non hai nessuna ambizione,
non hai spirito di iniziativa. Come
cazzo credi di riuscire a combinare
qualcosa, in questo modo?».
Si mise in bocca qualche pisello e
ricominciò a parlare: «E cos’è tutto
questo fumo qua dentro? Puah! Ho
dovuto aprire tutte le finestre! L’aria
era azzurra!»