Carlo Battimelli Factotum-da cap 6 al cap 10 Di carlomarcs pubblicato martedì, Marzo 22, 2022 Facebook LinkedIn Pinterest Twitter 6.Il lunedì mattina stavo da cani. Lasbronza della sera prima. Mi feci labarba e mi presentai all’indirizzo diun annuncio che avevo trovato sulgiornale. Mi sedetti di fronte alredattore, un uomo in maniche dicamicia con due borse profondesotto gli occhi. Sembrava che nondormisse da una settimana. Erafresco e scuro là dentro. Era la salacomposizione di uno dei duequotidiani della città, il più piccolo.Alle scrivanie, sotto lampade forti,c’erano gli uomini che preparavano itesti.«Dodici dollari alla settimana»,disse.<br />«Va bene», dissi io. «Ci sto».Lavoravo con un piccoletto grassocon una pancetta malaticcia. Avevaun antiquato orologio da taschino eportava il panciotto e la visieraverde.Aveva le labbra grosse eun’espressione stupida e ombrosa.Le rughe del viso non erano néinteressanti né personali, sembravache gli avessero piegato e poidisteso la faccia, come un pezzo dicartone, parecchie volte. Portavascarpe con la punta quadrata emasticava tabacco, schizzando ilsucco in una sputacchiera ai suoipiedi.«Mr. Belger», disse dell’uomo cheaveva bisogno di una bella dormita,«ha lavorato sodo per rimettere inpiedi questo giornale. È unbrav’uomo.Quando è arrivato lui stavamofallendo».Mi guardò. «Di solito questo lavorolo danno a uno studente».È una rana, pensai, ecco cos’è.«Voglio dire», disse, «di solitoquesto lavoro va a uno studente.Così può studiarsi i suoi libri tra unacommissione e l’altra. Tu sei unostudente?».«No».«Questo lavoro di solito va a unostudente».Tornai nel mio ufficio e mi sedetti.La stanza era piena di file e file dicassetti di metallo e nei cassettic’erano i cliché di zinco che eranostati usati per gli annunci. Molti diquesti cliché venivano usati incontinuazione. C’erano anche molticaratteri… nomi di clienti e logotipi.L’ometto grasso strillava«Chinaski!» e io andavo a vederequale dei caratteri voleva. Spesso mimandavano all’altro giornale, dallaconcorrenza, a chiedere qualchecarattere in prestito. Noi gliprestavamo i nostri. Era una bellapasseggiata e avevo trovato un postoin una stradina dove davano unbicchiere di birra per cinque cents. Ilpiccoletto grasso non mi chiamavaspesso e così passavo parecchiotempo a bere birra. Il piccolettocominciò a sentire la mia mancanza.Per un po’si limitò a guardarmi male. Poi ungiorno mi chiese:«Dove sei stato?».«A bere una birra».«Questo è un lavoro per unostudente».«Io non sono uno studente».«Allora te ne vai. Ho bisogno diqualcuno che stia sempre qui a miadisposizione».Il piccoletto mi portò da Belger chesembrava stanco come sempre.«Questo è un lavoro per unostudente, Mr. Belger. Temo che nonvada bene per quest’uomo. Abbiamobisogno di uno studente».«Va bene», disse Belger. Ilpiccoletto se ne andò.«Quanto le dobbiamo?» chieseBelger.«Cinque giorni».«O.K., porti questo giù incontabilità».«Senta, Belger, quel vecchio stronzofa cacare».Belger sospirò. «Cristo Iddio, vuoiche non lo sappia?».Andai giù in contabilità.7.Eravamo ancora in Louisiana. Ciaspettava la grande traversata delTexas.Ci diedero cibo in scatola senzaapriscatole. Ammucchiai le miescatolette sul pavimento e mi sdraiaisul sedile di legno. Gli altri si eranomessi in fondo al vagone, seduti tuttiinsieme, chiacchieravano e ridevano.Chiusi gli occhi.Dopo una decina di minuti sentii lapolvere salire tra le crepe dell’asseche faceva da sedile. Era polveremolto vecchia, polvere di cimitero,puzzava di morte, di roba morta damolto tempo. Mi filtrava nellenarici, mi si ammucchiava sullesopracciglia, cercava di entrarmi inbocca. Poi sentii un respiro pesante.Tra le crepe vidi un uomoaccovacciato dietro il sedile che misoffiava la polvere in faccia. Mi tiraisu. L’uomo sgusciò fuori da dietro ilsedile e corse in fondo al vagone. Mipulii la faccia e lo guardai fisso. Eradifficile crederci.«Se viene qui voglio che mi diateuna mano, amici», sentii che diceva.«Dovete promettermi che mi dareteuna mano…».Tutta la banda si voltò a guardarmi.Mi stesi di nuovo sul sedile. Lisentivo parlare:«Che cos’ha quel tipo?». «Chi crededi essere?». «Non parla connessuno».«Se ne sta là in fondo tutto solo».«Ci occuperemo di lui quando saràlà fuori, sulle rotaie. Quel bastardo».«Credi che ce la farai a dargli il fattosuo, Paul? Mi sembra pazzo».«Se non ce la farò io ce la faràqualcun altro. Gli faremo sputaresangue, prima di lasciarlo andare».Un po’ più tardi andai in fondo alvagone a prendere un sorso d’acqua.Quando passai davanti a lorosmisero di parlare. Mi guardarono insilenzio bere l’acqua dal bicchiere.Poi quando mi voltai e tornai al mioposto ricominciarono a parlare.Il treno faceva molte fermate, digiorno e di notte. A ogni fermatadove c’era un po’ di verde e unapiccola città, un paio di uominisaltavano giù dal treno.«Ehi, che cosa cazzo è successo aCollins e Martinez?».Il caposquadra prese l’elenco e licancellò. Tornò verso di me. «E tuchi sei?».«Chinaski».«Resti con noi?».«Ho bisogno di lavorare».«O.K.». Se ne andò.A El Paso arrivò il caposquadra edisse che dovevamo cambiare treno.Ci diede un buono per una notte inun albergo vicino e uno per un pastoin una tavola calda locale; ci diedeanche istruzioni su come, quando edove salire sul prossimo treno chesarebbe passato nelle prime ore delmattino.Aspettai fuori dalla tavola caldamentre gli altri mangiavano, equando uscirono stuzzicandosi identi e parlando fra loro, entrai.«Gli faremo il culo, a quel figlio diputtana!».«Cazzo, come lo odio quello sporcobastardo».Entrai e ordinai un hamburger concipolle e fagioli. Non c’era nemmenoil burro da spalmare sul pane ma ilcaffè era buono. Quando uscii sen’erano andati. Un barbone miveniva incontro lungo ilmarciapiede. Gli diedi il buono perl’albergo.Quella notte dormii al parco. Misembrava più sicuro. Ero stanco, enon sentii nemmeno la durezza dellapanchina. Dormii.Dopo un po’ fui svegliato da quelloche sembrava un ruggito. Nonsapevo che gli alligatori ruggissero.Non era solo un ruggito, per laprecisione: anche un respiroansimante e un sibilo. Sentii unrumore secco di mascelle che sichiudevano. In mezzo allo stagnoc’era un marinaio ubriaco e tenevauno degli alligatori per la coda.L’animale cercava di voltarsi eaddentare il marinaio ma avevaqualche difficoltà.Le mascelle erano spaventose, malente e sconclusionate. Un altromarinaio e una ragazza stavano aguardare e ridevano. Poi il marinaiobaciò la ragazza e se ne andaronoinsieme lasciando l’altro a lottarecon l’alligatore…La seconda volta fu il sole asvegliarmi. La camicia scottava.Bruciava, quasi. Il marinaio se n’eraandato.E anche l’alligatore. Sulla panchina aest sedevano una ragazza e dueuomini. Evidentemente anche loroavevano dormito nel parco, quellanotte.Uno dei due uomini si alzò.«Mickey», disse la ragazza, «ce l’haiduro!».Risero.«Quanti soldi abbiamo?».Si frugarono nelle tasche. Avevanocinque cents.«Be’, che cosa facciamo?».«Non so. Andiamocene di qui».Li guardai allontanarsi, uscire dalparco, nella città.8.Quando il treno arrivò a LosAngeles ci fu un’altra fermata di dueo tre giorni. Distribuirono di nuovo ibuoni per l’albergo e i pasti. Diediquelli per l’albergo al primo barboneche incontrai. Mentre camminavo incerca della tavola calda dovemangiare con i miei buoni arrivaialle spalle di due degli uomini cheavevano fatto il viaggio con me daNew Orleans. Affrettai il passo e mimisi al loro fianco.«Come va, ragazzi?» chiesi.«Oh, va bene, va bene».«Sicuri? Niente che vi rode?».«No, tutto bene».Li lasciai indietro e trovai la tavolacalda. Servivano anche birra, in quelposto, così scambiai i buoni con unpo’ di birra. C’era tutta la banda deltreno. Finiti i buoni, mi restò appenaqualche spicciolo per il tram fino acasa dei miei.9.Mia madre lanciò un urlo quandoaprì la porta. «Figlio mio! Seiproprio tu, figlio mio?».«Ho bisogno di dormire».«La tua stanza è sempre lì, che tiaspetta».Andai nella mia stanza, mi spogliai emi ficcai a letto.Fui svegliato verso le sei di sera, damia madre. «È tornato tuo padre».Mi alzai e cominciai a vestirmi. Lacena era pronta in tavola quandoentrai nella stanza.Mio padre era un uomo grande egrosso, più alto di me, con gli occhiscuri; i miei erano verdi. Aveva ilnaso troppo grosso e non si potevafare a meno di notare le orecchie.Era come se volessero staccarsi dallatesta.«Senti», disse, «se ti fermi ti metteròfuori il conto, vitto e alloggio eanche la lavanderia. Quando avraiun lavoro, detrarremo dallostipendio quello che ci devi finchéavrai saldato il debito».Mangiammo in silenzio.10.Mia madre aveva trovato un lavoro.Doveva cominciare la mattina dopo.Così avevo la casa tutta per me.Dopo colazione e dopo che i mieigenitori furono usciti per andare allavoro mi svestii e tornai a letto.Mi masturbai, poi presi un vecchioquaderno di scuola e feci una tabellaoraria degli aerei che mi passavanosulla testa. Decorai la tabella conqualche disegno piacevolmenteosceno. Sapevo che mio padre miavrebbe messo fuori un contospaventoso per vitto, alloggio elavanderia, e che non avrebbe persol’occasione di elencarmi comepersona a carico nella denuncia alfisco, ma non avevo nessuna vogliadi trovarmi un lavoro, sembrava.Mentre io riposavo a letto avevo unastrana sensazione nella testa. Eracome se avessi il cranio pieno dicotone, o di aria, come unpalloncino.Sentivo il vuoto nella testa. Nonriuscivo a capire. Dopo un po’ smisidi pensarci. Stavo bene, non era unasensazione tormentosa. Ascoltai unpo’di musica sinfonica, fumando lesigarette di mio padre.Mi alzai e andai in soggiorno. Nellacasa di fronte c’era una giovanemoglie. Indossava un vestitomarrone corto e stretto. Era sedutasui gradini della sua casa, proprio difronte. Le vedevo un bel po’ di roba,sotto la gonna. Restai a guardarladietro le tende della finestra,sbirciando su per il vestito. Mieccitai. Alla fine mi masturbaiancora.Feci un bagno, mi vestii e gironzolaifumando altre sigarette. Verso lecinque uscii di casa e andai a fareuna lunga passeggiata. Camminaiper quasi un’ora.Quando tornai entrambi i mieigenitori erano in casa. La cena eraquasi pronta. Andai nella mia stanzae aspettai che mi chiamassero. Michiamarono. Andai a tavola.«Bene», disse mio padre, «haitrovato un lavoro?».«No».«Senti, chiunque voglia un lavorotrova un lavoro».«Può darsi».«Non riesco a credere che tu sia miofiglio. Non hai nessuna ambizione,non hai spirito di iniziativa. Comecazzo credi di riuscire a combinarequalcosa, in questo modo?».Si mise in bocca qualche pisello ericominciò a parlare: «E cos’è tuttoquesto fumo qua dentro? Puah! Hodovuto aprire tutte le finestre! L’ariaera azzurra!» Articolo precedente Articolo successivo Post correlati Carlo Battimelli l’avvelenata Carlo Battimelli LEGGENDA DI CAPODIMONTE Carlo Battimelli politica,satira,poesia,narrativa LA GUERRA DELLE CAMPANE