Analogie: la vecchia scorticata

ln un giardino dove si affacciava il re di Roccaforte si erano ritirate due vecchiarelle, che erano il riassunto delle disgrazie, il protocollo delle deformità, il libro mastro della bruttezza. Avevano ciuffi di capelli ingarbugliati e ingrifati, la fronte rugosa e bitorzoluta, le ciglia arruffate e ispide, le palpebre grosse e cascanti, gli occhi avvizziti e scalcagnati, la faccia ingiallita e grinzosa, la bocca squacquerata e storta. Insomma, avevano la barba da caprone, il petto peloso, le spalle con la gobba, le braccia storte, le gambe sciancate e storpie, i piedi a uncino. Perché non le vedesse neanche il Sole, se ne stavano rintanate in un basso sotto le finestre di quel signore. Il quale era arrivato a un punto tale che non poteva fare una scorreggia senza dar noia a queste brutte pesti, che mormoravano per ogni minima cosa e si facevano afferrare dal polipo: ora dicendo che un fiore di gelsomino, caduto da sopra, le aveva fatto una bozza in testa; ora che una lettera strappata le aveva storto una spalla; ora che un po’ di polvere le aveva provocato un livido sulla coscia.Tanto che, sentendo questo sproposito di delicatezza, il re pensò che sotto di lui abitasse la quintessenza delle morbidezze, il primo taglio delle carni delicate e il fior fiore delle tenerezze, per la quale cosa gli salì una voglia dalle ossa piccoline e una fregola dal midollo delle ossa di vedere questa meraviglia delle meraviglie e chiarirsi questo fatto. E cominciò a gettare sospiri da sopra a sotto e a scatarrare senza catarro e, finalmente, a parlare più apertamente e fuori dai denti, dicendo: “Dove, dove ti nascondi gioiello, sfarzo, cosa bella del mondo? Esci, esci sole, riscalda l’imperatore! Scopri le tue grazie, mostra queste lucernette della bottega d’Amore, caccia fuori questa testolina, banca accorsata dai contanti della bellezza! Non essere così taccagna della tua vista! Apri la porta al povero falcone! Dammi una mancia se me la vuoi dare! Lasciami vedere lo strumento da dove esce questa bella voce! Fa che veda la campana in cui si forma il tintinnìo! Fammi dare un’occhiata a questo uccello! Non consentire che, come una pecora del Ponto, io mi nutra di assenzio, col negarmi di guardare e ammirare questa bellezza delle bellezze!”. Queste e altre parole diceva il re, ma avrebbe anche potuto suonare le campane a gloria, perché le vecchie si erano otturate le orecchie, la qual cosa aggiungeva legna al fuoco del re, che si sentiva scaldare come un ferro nella fornace del desiderio, stringere dalle tenaglie del pensiero e martellare dal maglio della tortura amorosa, per fabbricare una chiave che potesse aprire la cassettina dei gioielli che lo facevano morire di privazione. Ma non per questo si tirava indietro, anzi continuava a inviare suppliche e a rinforzare gli assalti, senza acquietarsi mai.Tanto che le vecchie, dandosi tono e ringalluzzite dalle offerte e promesse del re, decisero di non lasciarsi sfuggire l’occasione di acchiappare un uccello che da solo veniva a ficcarsi nella trappola. Così, un giorno, mentre il re faceva la solita giaculatoria, parlando con una vocina sottile dal buco della serratura, gli dissero che il più grande favore che gli potevano fare, tra otto giorni, sarebbe stato quello di mostrargli non più di un solo dito della mano.

ll re che, da esperto soldato, sapeva che le fortezze si conquistano palmo a palmo, non rifiutò questa soluzione, sperando di occupare dito a dito la piazzaforte che aveva assediato; e conosceva anche l’antico motto che dice Prima prendi e poi chiedi. Perciò accettò il termine perentorio dell’ottavo giorno per vedere l’ottavo miracolo del mondo. Intanto le vecchie non fecero altro esercizio che, come un farmacista che ha rovesciato lo sciroppo, succhiarsi le dita, con il proposito che, giunto il giorno stabilito, chi di loro due avesse il dito più liscio, lo avrebbe mostrato al re. Il quale, nel mentre, stava sulla corda, aspettando l’ora stabilita per soddisfare questo desiderio: contava i giorni, numerava le notti, pesava le ore, misurava i minuti, annotava gli attimi, scandiva gli atomi di tempo avuti a cottimo per l’aspettativa del bene desiderato, ora pregando il Sole di prendere una scorciatoia attraverso i campi del cielo, per arrivare, prima della solita ora, a sciogliere il carro infuocato e abbeverare i cavalli stanchi di un così lungo viaggio. Ora scongiurava la Notte che, facendo sprofondare le tenebre, gli permettesse di vedere quella luce che, non vista ancora, lo faceva bruciare nella fornacella d’Amore. Ora se la prendeva con il Tempo che, per fargli dispetto, si era messo le stampelle e le scarpe di piombo, perché non arrivasse troppo presto l’ora di liquidare il contratto alla cosa amata, onde saldare l’obbligazione stipulata tra loro.

Ma, come volle il Solleone, giunse il tempo e, recatosi di persona nel giardino, bussò alla porta, dicendo Vieni qua, vieni qua: dove una delle vecchie, la più carica di anni, visto alla pietra di paragone che il suo dito era di miglior caratura che non quello della sorella, infilandolo nel buco della serratura lo mostrò al re, il quale non fu dito, ma stecco appuntito che gli trafisse il cuore; non fu stecco, ma mazza che gli rintronò in testa. Ma che dico stecco e mazza? Fu zolfanello acceso per l’esca delle sue voglie, fu miccia infuocata per le munizioni dei suoi desideri. Ma che dico stecco, mazza, zolfanello e miccia? Fu spina sotto la coda dei suoi pensieri; anzi, cura di fichi cacatorii, che gli cacciò fuori la scorreggia dell’affetto amoroso con una scarica di sospiri. E tenendo in mano e baciando quel dito, che da raspa di calzolaio era diventato brunitoio d’indoratore, cominciò a dire: “O archivio delle dolcezze, o repertorio delle gioie, o registro dei doni d’Amore, per te sono diventato deposito d’affanno, magazzino d’angosce, dogana di tormento! È possibile che tu voglia mostrarti così dura e ostinata, che non ti debba commuovere ai miei lamenti? Deh, cuore mio bello, se hai mostrato attraverso il buco la coda, stendi ora questo muso e facciamo una gelatina di contentezze! Se hai mostrato il cannolicchio, o mare di bellezza, mostrami ora la polpa, scoprimi questi occhi di falcone pellegrino e lasciali pascersi di questo core! Chi sequestra il tesoro di questa bella faccia dentro a un cesso? Chi fa fare la quarantena a questa bella mercanzia dentro a una tana? Chi tiene prigioniera la potenza d’Amore dentro a questo porcile? Vieni via da questo buco, scappa da questa stalla, esci da questo buco, Salta, maruzza e dai la mano a Cola e spendimi per quanto valgo! Sai pure che sono re e non un cetrullo qualunque e posso fare e disfare. Ma quel falso cecato, figlio di uno sciancato e di una squaldrina, che ha libera autorità sugli scettri, vuole che io ti sia suddito, e che ti chieda per grazia quello che potrei prendere con la forza. E so ancora, come disse Quello, che con le carezze, e non con le smarziassate, si addolcisce Venere”.

La vecchia, che sapeva dove satanasso porta la coda, volpe maestra, gattone vecchio, scaltra, astuta e ruffiana, riflettendo sul fatto che quando il potente prega allora commanda e che l’ostinazione di un vassallo smuove gli umori collerici nel corpo del padrone, che poi esplodono in dissenterie di rovine, si adattò alla situazione e con una vocella da gatta scorticata disse: “Signore mio, poiché vi compiacete di mettervi sotto a chi vi sta sotto, degnandovi di scendere dallo scettro a la conocchia, dalla sala reale a una stalla, dagli sfarzi agli stracci, dalla grandezza alle miserie, dall’astrico alla cantina e dal cavallo all’asino, non posso, non devo, né voglio oppormi alla volontà di un così grande re. Perciò, poiché volete fare questa unione di principe e vaiassa, questo intarsio  d’avorio e legno di pioppo, questo incastro di diamante e vetrini, eccomi pronta e preparata alle voglie vostre, supplicandovi solo di una grazia come primo segno dell’affetto che mi portate: che io sia ricevuta nel vostro letto di notte e senza candela, perché non ho il coraggio di essere vista nuda”. Il re, tutto gongolante di gioia, le giurò con una mano sopra l’altra che l’avrebbe fatto volentieri. Così, gettato un bacio de zucchero a una bocca di assafetida, se ne andò e non vedeva l’ora che il Sole smettesse d’arare e seminasse di Stelle i campi del cielo, per seminare il campo dove aveva disegnato di raccogliere gioie a mucchi e contentezze a vasi (da notte).

Ma, venuta la Notte, che, vedendosi attorno tanti ladri di botteghe e mantelli, aveva gettato il nero come la seppia, la vecchia, tiratesi tutte le pellecchie del corpo e, fattene un groppo dietro le spalle, legato stretto stretto con un capo di spago, se ne venne al buio, portata per mano da un cameriere nella camera del re, dove, toltisi gli stracci, si schiaffò nel letto. Il re, che stava con la miccia sul cannone, come la sentì venire e coricarsi, spalmatosi tutto di musco e di zibetto e spruzzatosi tutto d’acqua profumata, si lanciò come un cane corso nel letto. E fu una fortuna per la vecchia che il re avesse addosso tanto profumo da non sentire il fiato della sua bocca, la puzza delle ascelle e il fetore di quella brutta cosa. Ma non si fu così presto coricato che, cominciando a tastare, si accorse, palpandola, della faccenda di dietro, scoprì le trippe secche e le vesciche mosce, che erano dentro alla bottega della sciagurata vecchia e, restando sconcertato, non volle per il momento dire niente, per accertarsi meglio del fatto e, fingendo di non accorgersene, dette fondo a un Mandracchio, mentre credeva di stare sulla costa di Posillipo e navigò su una barcaccia, pensando di veleggiare con una galea fiorentina. Ma non appena la vecchia iniziò il primo sonno, il re, cacciato da uno scrittorio d’ebano e d’argento una borsa di camoscio con un focile dentro, accese una fiammella e, fatta una perquisizione dentro le lenzuola, e, trovata un’Arpia al posto di una Ninfa, una Furia al posto di una Grazia, una Gorgona al posto di una Ciprigna, montò in tale furia che stava per tagliare la gomena che aveva fatto approdare questa nave e, sbruffando di collera, chiamò tutti i servi che, sentendo gridare all’armi, indossata la camicia, corsero di sopra. Ai quali, agitandosi come un polipo, il re disse: “Guardate che bello scherzo che mi ha fatto questa nonna di satanasso, io che credevo di prendermi una vitelluccia lattante mi sono trovato una placenta di bufala; pensando d’avere incontrato una luminosa colomba mi sono trovato in mano questa civetta; immaginando di avere un boccone da re mi trovo tra le zampe questa schifezza, mastica-e-sputa! Ma questo e anche peggio capita a chi compra la gatta nel sacco! Ma essa mi ha fatto questa truffa ed essa ne pagherà la penitenza! Perciò, pigliatela subito, così come si trova, e buttatela da questa finestra”. La qual cosa sentendo la vecchia, cominciò a difendersi a calci e a morsi, dicendo che si appellava contro questa sentenza, perché lui stesso l’aveva tirata con un argano per farla venire nel suo letto; oltre al fatto che avrebbe potuto portare cento dottori a sua difesa e soprattutto quel proverbio: ‘Gallina vecchia fa buon brodo’, e quell’altro che ‘Non si deve lasciare la via vecchia per la nuova‘. Ma con tutto questo fu presa di colpo e di peso e buttata nel giardino, e la fortuna sua fu che, restata appesa per i capelli a un ramo di fico, non si ruppe l’osso del collo.

Ma di buon mattino, prima che il Sole prendesse possesso dei territori che gli aveva ceduto la Notte, passarono per quel giardino certe fate che, per una certa stizza, non avevano mai parlato né riso. E, vedendo penzolare dall’albero quella malombra, che aveva fatto squagliare innanzi tempo le ombre, scoppiarono in una risata a crepapancia tale che stavano per farsi venire un’ernia e, mettendo in moto la lingua, non chiusero per un pezzo la bocca su questo bello spettacolo. Al punto che, per ripagare il divertimento e lo sfizio, le diedero ognuna la sua fatagione, concedendole, una per una, di diventare giovane, bella, ricca, nobile, virtuosa, benvoluta e fortunata. E, andate via le fate, la vecchia si trovò a terra, seduta su una sedia di velluto prezioso con le frange d’oro, sotto lo stesso albero che era diventato un baldacchino di velluto verde col fondo d’oro. La sua faccia era tornata quella di una ragazza di quindici anni, così bella che tutte le altre bellezze sarebbero sembrate ciabatte scalcagnate al confronto di una scarpina attillata e calzante. Al confronto di questa grazia da Seggio tutte le altre grazie sarebbero state stimate da Ferrivecchi e da Lavinaio. Dove questa giocava una mano vincente di ciance e vezzi, tutte le altre avrebbero giocato a banco fallito. Era poi così abbigliata, elegante e lussuosa che ti sembrava una regina: l’oro abbagliava, i gioielli stralucevano, i fiori ti saltavano in faccia. Le stavano intorno tanti servi e damigelle che sembrava il giorno del perdono.

Nel frattempo il re, messasi una coperta addosso e un paio di ciabatte ai piedi, si affacciò alla finestra per vedere che fine avesse fatto la vecchia e, visto quello che non s’immaginava di vedere, con un palmo di bocca aperta e come se fosse incantato, squadrò per un pezzo dalla testa ai piedi quel bel pezzo di ragazza. Ora ammirando i capelli che, in parte sparpagliati sulle spalle, in parte legati con un laccio d’oro, facevano invidia al Sole; ora fissando le ciglia, balestre e palle che bersagliavano i cuori; ora guardando gli occhi, lanterna d’Amore; ora contemplando la bocca, macina amorosa dove le Grazie pigiavano contentezza e ne ricavavano vino Greco dolce e babà saporiti. Dall’altra parte, girava come una trave uscita di… senno, vedendo i gingilli e i gioielli che portava appesi al collo, e ai ricchi lussi che aveva addosso e, parlando fra sé, diceva: “Faccio il primo sonno o sono sveglio? Ragiono o do i numeri? Sono io o non sono io? Da quale tiro è uscita una così bella palla a colpire questo re così da gettarmi a terra? Sono fuso, sono rovinato se non mi rifaccio! Come è spuntato questo sole? Come è sbocciato questo fiore? Com’è nato questo uccello per tirare come un argano le voglie mie? Quale barca l’ha portato in questi paesi? Quale nuvola l’ha fatto piovere? Quali lave di bellezza mi portano dentro a un mare di affanni?”. Così dicendo si precipitò per le scale e, correndo nel giardino, arrivò davanti alla vecchia rigenerata e, strofinandosi quasi per terra, le disse: “O muso di piccioncino mio, o pupatella delle Grazie, colomba splendente del carro di Venere, mulinello trionfale d’Amore! Se hai puosto in ammollo questo cuore nel fiume di Sarno, se non mi sono entrati nelle orecchie i semi di canna, se non mi è caduto negli occhi la merda di rondine, io sono sicuro che sentirai e vedrai le pene e i tormenti che di dritto e di rilancio mi hanno infilzato nel petto queste bellezze tue. E, se non credi dalla cenere di questa faccia alla lisciva che bolle dentro a questo petto, se non credi dalle fiamme dei sospiri alla fornace che arde dentro a queste vene, per comprendere e giudicare puoi argomentare dai capelli d’oro quale fune mi leghi, da questi occhi neri quali carboni mi cuociano e dagli archi rossi di queste labbra quale freccia mi trapassi. Perciò, non sbarrare la porta della pietà, non alzare il ponte della misericordia, non otturare il condotto della compassione! E se non mi giudichi meritevole di avere un indulto da questa bella faccia, fammi almeno una salvaguardia di buone parole, un salvacondotto di qualche promessa e una carta d’impegno per qualche speranza, perché altrimenti io porto via le ciabatte e tu ne perdi la forma”.

Queste e mille altre parole gli uscirono dal profondo del petto, che toccarono sul vivo la vecchia rigenerata, la quale alla fine l’accettò per marito. E così, alzatasi da sedere e presolo per la mano, se ne andarono in coppia nel palazzo reale, dove subito fu apparecchiato un grandissimo banchetto e furono mandate a invitare tutte le gentildonne del paese e, tra le altre, la sposa vecchia volle che venisse anche la sorella. Ma ce ne volle da fare e da dire per trovarla e portarla al convito, ché per la gran paura si era andata a rintanare e a nascondere tanto che non se ne trovava traccia. Ma, venuta come dio volle e sedutasi vicino alla sorella, che ci volle altro che uno scherzo per riconoscerla, si misero a fare gaudeamus. Ma la povera vecchia aveva altra fame che la rodeva, perché crepava d’invidia nel vedere luccicare il pelo della sorella e ogni tanto la tirava pe la manica, dicendo: “Che hai fatto, sorella mia, che hai fatto? Beata a te co la catena!”. E la sorella rispondeva: “Bada a mangiare, che poi ne parliamo”. E il re domandava cosa volesse e la sposa per coperchio rispondeva che desiderava un po’ di salsa verde e il re subito fece venire agliata, mostarda, impepata e mille altre salse per far venire l’appetito. Ma la vecchia, a cui la salsa di mostacciolo pareva fiele di vacca, tornò a tirare la sorella dicendo ancora: “Che hai fatto, sorella mia, che hai fatto? Che voglio farti uno scongiuro sotto al mantello”. E la sorella rispondeva: “Zitta, che abbiamo più tempo che danari. Ora mangia, che ti faccia calore, e poi parliamo”. E lo re curioso domandava che cosa volesse e la sposa, che era impacciata come un pulcino nella stoppa e avrebbe voluto essere digiuna di quella rottura di tempie, rispose che voleva qualcosa di dolce ed ecco che fioccavano le paste, là traboccavano le cialde e i tarallucci, là diluviava il biancomangiare, là piovevano a cielo aperto i franfrellicchi. Ma la vecchia, che era stata presa dal polipo e aveva l’angoscia in corpo, tornò alla stessa musica, tanto che la sposa, non potendo più resistere, per levarsela da dosso rispose: “Mi sono fatta scorticare, sorella mia”. Sentendo ciò l’invidiosa disse sottovoce: “Vai, che non l’hai detto al sordo! Voglio tentare anch’io la fortuna mia, perché ogni spirito ha lo stomaco e se la cosa mi riesce non sarai tu sola a godere, perché ne voglio anch’io la parte mia fino alla radice”.

Così dicendo e intanto sparecchiate le tavole, facendo finta di andare per una faccenda necessaria, se ne corse di filato in una bottega di barbiere, dove trovato il maestro e tiratolo in uno sgabuzzino, gli disse: “Eccoti cinquanta ducati, e scorticami dalla testa ai piedi”. Il barbiere, credendola pazza, le rispose: “Vai, sorella mia, che tu non parli come si deve e certamente ti serve qualcuno che ti accompagni”. E la vecchia con una faccia di piperno, replicò: “Sei tu il pazzo che non conosci la fortuna tua, perché oltre ai cinquanta ducati, se una faccenda mi resce, ti farò tenere il bacile da barba alla fortuna. Perciò metti mano ai ferri, non perdere tempo, perché sarà la tua fortuna”.

Il barbiere, avendo contrastato, litigato e protestato per un bel pezzo, all’ultimo, tirato per il naso, fece come quello che Lega l’asino dove vuole il padrone. E, fattola sedere su uno scannetto, cominciò a fare macello di quella scorza nera, che piovigginava e piscettava tutta sangue e, di tanto in tanto, salda come se si stesse radendo, diceva: “Uh, chi bella vuol parere, pena deve patire!”. Ma, quello continuando a mandarla in rovina ed essa continuando a dire questo motto, se ne andarono contrapuntando il colascione di quel corpo fino alla rosa dell’ombellicolo, dove, essendole mancato con il sangue la forza, sparò da sotto un tiro di partenza, provando a rischio suo il verso del Sannazaro:

“la invidia, figlio mio, distrugge se stessa”

. Giovan Battista Basile: lu cunto delli cunti